Assurdo quel che è successo. Ero in stazione, questa mattina, piena ora di punta: un fiume di gente che andava e veniva dalle banchine dei treni e del metro. Impiegati, per lo più. Io ero tra questi. Con l'ombrello appeso al braccio, chiuso, gongolavo dolcemente vedendo un raggio di sole trafiggere le grandi vetrate: la primavera è arrivata! Mentre camminavo, così, lo ammetto un po' distratto, urto contro una signora, "mi scusi tanto, non l'avevo mica vista", le dico, ma quella niente, non risponde e io penso "che maleducata", ma poi mi accorgo che la sua attenzione è completamente assorbita da altro. Che l'attenzione di tutti, nella stazione, è completamente assorbita da altro. A quel punto mi chiedo anche io cosa accada mai e noto che lo sguardo di tutti è puntato in direzione del corpo centrale dei binari, quelli dove per intenderci di solito arrivano i grossi treni, i treni che ti portano da una parte all’altra del Paese in meno tempo di quanto impieghi un regionale a fare qualche fermata. Insomma, anche io mi volgo da quella parte, “cosa ci sarà di così straordinario?”, mi chiedo, perché in effetti l’atmosfera intorno aveva un che di insolito. Sentivo che non si doveva trattare dell’ubriaco di turno addormentatosi con una gamba ciondoloni sulla banchina, ma di qualche cosa di strano, di insolito. Di assurdo. Guardo ma non riesco a vedere nulla, tanta la gente che si è ormai accalcata; ma, alzando di poco lo sguardo, finalmente lo vedo: al posto della graziosa trama di vetro e ferro battuto che avrei giurato fino a un secondo prima costituire il tetto della stazione, sta ora un enorme cratere, dal quale penzolano, pericolosamente, stringhe di materiale acuminato, che par quasi vogliano sporgersi per rincorrere qualche oggetto precipitato, come piccoli arti costellati da un miliardo di pezzetti di vetro. E i raggi di sole, che inondano senza pudore il cuore dei binari in un fascio illuminano una scena che io, ancora, non riesco a vedere. Ma quanto vi ho appena detto basterebbe già del tutto a dirmi sbalordito. Non tanto per il fatto in sé, quanto perché potessi essere tanto distratto da non accorgermene. Ed ecco perché dico che quel che è accaduto è fuori dal normale: non sarei stato mai abbastanza distratto da non notare un tetto sfondato. Che cosa succede? c’è qualcosa in me che non va? Oppure è tutto accaduto adesso, nell’arco del secondo in cui mi sono voltato per leggere i titoli del giornale? e il fragore, pensa che fragore ci deve essere stato. come hanno fatto tutti gli altri a non accorgersene? Che abbiamo traslato, senza rendercene conto, dimensione? Questi interrogativi, nella mia mente, facevano tuttavia da mero corollario a quello che più di ogni altro volevo risolvere: che cosa guardano tutti? Mi ritengo una persona molto posata; ma niente quel mattino era in ordine, e, in qualche modo, anche io non mi sentivo più io. Così, in preda a un moto estraneo alla mia consuetudine, sgomito per farmi breccia nella folla. E tira di qua e di là, arrivo finalmente ad affacciarmi in prima linea. Una parte di me, quella che conosco, quella giusta, forse riconosce che non avrei dovuto farlo. Proprio al centro dei binari stava un’enorme creatura alata: come un pettirosso, ma di gigantesche proporzioni, con l’ala ferita e la testolina inclinata verso quella, ad occhi chiusi. Mi ricordo di aver pensato “così appare il dolore”. Quel che è più strano, a ripensarci ora, è che nessuno aveva in mente di fare nulla. Nemmeno la polizia, nemmeno gli operai. Tantomeno io, che, come tutti gli altri, sono un semplice pendolare, un esecutore silenzioso di una routine sempre identica. Mi ricordo di aver pensato “non so che cosa farmene di questa emozione”; non so catalogarla. Da dove è giunta questa creatura? Perché è precipitata? Sventura? Colpa? Forse arriva da un universo parallelo, lei sì, e si è smarrita nel nostro. E sarebbe la cosa giusta aiutarla. Aiutarla. Ma che significa poi? In che modo la si potrebbe aiutare? Vi mentirei se vi dicessi che tutto questo abbia lucidamente pensato nel momento in cui mi trovavo lì. La verità è che non pensavo a niente. ero semplicemente bloccato: la mia mente, così come quella degli altri, a quanto pare, era attonita, incapace di farsi una ragione, di dare un senso a quanto la realtà restituiva. In un surreale silenzio continuavamo a osservare quel mostro, che sussultava, ogni tanto, come se piangesse, e affannosamente muoveva su e giù il petto, coperto di splendide piume rosseggianti, che quasi sanguignamente interagivano con quel pietoso sole di primavera. Poi, improvvisamente, una fanciulla, staccatasi dalla mano di sua madre, salta sui binari, e si getta con le braccia aperte sulla creatura. “Povero, povero!”, dice “ti porto a casa con me”. Ti curerò, gli dice. Io sento solo il cuore fare una sorta di inchiodata ma, per il resto, non so cosa pensare. La bambina porta un grazioso vestito a fiori rosa, che adesso è tutto imbrattato del sangue della creatura. La mamma la guarda, e rimane in un silenzio nemmeno interlocutorio; muto. Se ci ripenso, mi pare davvero assurdo.
Giulia Di Paolo