Ieri è stata la giornata mondiale delle api. L’ho scoperto per caso, ma è stato un caso felice, perché a dire la verità è da domenica sera che ho in mente questo pezzo (o forse era lunedì, poco importa). L’occasione mi è giunta per virtù di memoria, anche ammantata di una certa nostalgia: ho pensato al fatto che l’Ape maia, il cartone animato che forse a qualcuno di voi sarà capitato di vedere da piccoli, è una lezione di anarchia. Mi spiegherò iniziando col ricostruire la mia catena di pensieri. Le api sono l’unica testimonianza della realizzabilità di un’utopia comunitaria che molti filosofi hanno solo potuto vagheggiare, in varie forme e con le dovute differenze. L’alveare è un organismo di cui i singoli individui rappresentano parti la cui vita ha senso solo se si riverbera in termini di collettività; ognuno ha un suo ruolo e tutto funziona secondo precisi protocolli e rituali. L’alveare è una struttura gerarchica che non tende tuttavia a farsi monarchia assoluta: sono le api che cercano la regina, e non la regina che subordina a sé le api. La maggiore importanza attribuita al soggetto è dovuta essenzialmente alla funzione vitale che ricopre nella società stessa, ossia quella riproduttiva. Quel che appare sorprendente è che in tutto il resto delle attività che interessano la sopravvivenza dell’alveare la regina praticamente non risulta avere voce in capitolo, con le api operaie che, spinte da uno pseudo imperativo categorico, obbediscono solo a sé stesse e alla vita e, a differenza della sovrana che vive rinchiusa per tutta la vita dentro un palazzo di cera, passano le loro giornate svolazzando sui fiori e qualche volta fanno anche dei pisolini nelle corolle, il che, se me lo chiedete, è un ottimo esempio di bilanciamento sforzo-ricompensa. Insomma, tra di loro esiste uno schema cooperativo al suo cuore anarchico, in cui ciascuno è indispensabile nella misura in cui fa qualcosa, e per quello che fa, non per ciò che è. Che poi come tutte le società abbia dei difetti lo si vede dal risvolto potenzialmente distopico di tutti questi bei presupposti, esemplificato dall’immagine del fuco che viene gettato via dall’alveare non appena ha terminato di espletare le sue funzioni biologiche. da esseri così perfettamente organizzati c’è da aspettarsi, in fondo, una svolta autoritaria: l’altro volto dell’organismo che coopera in grande armonia è il “Big Brother is watching you” alle cui maglie niente e nessuno sfugge. Anarchia o no? Un dilemma che ancora non risolvo, a proposito delle api. Un dilemma che si rinfocola quando penso all’Ape maia.
L’Ape maia, un giorno, nasce; il modo in cui nasce già la dice lunga sul suo destino, perché prima ancora di vederla uscire dalla sua graziosa celletta la si ode fare domande, e in questo ha già provveduto a distinguersi dalle altre piccole api, che hanno solo obbedito a quello che la natura, strettamente codificata nella legge dell’alveare, imponeva loro di fare: rompere il sigillo di cera della celletta e sporgere il capo, in attesa che una delle api nutrici li venga a prendere. Maia è in ritardo e, per giunta, trasgredisce la legge come primissimo atto di vita, il primo atto di una postura radicalmente sovversiva che, tramite la forza dell’interrogativo, porta infine all’atto di trasgressione più grave: l’abbandono dell’alveare. Come infatti qualcuno ricorderà l’ape Maia non si svolge per niente nell’alveare: è piuttosto la storia di questa piccola apetta, come annunciato, Maia, che decide di abbandonare l’alveare per girare il mondo. Si prende un anno sabbatico, in un certo senso, ma dire così sarebbe solo fare ironia su un tema che, per quanto si palesi in forma di un racconto per bambini, cela più profondità di quella apparente. Nei primi episodi si vedono le piccole api che, subito dopo essere state spostate dalla loro celletta, prendono lezioni dalle loro tutrici adulte, che si occupano di mostrare loro, tramite ammonizioni e racconti, tutti i pericoli che li aspettano fuori dall’alveare. Vorrei davvero soffermarmi su un punto del primo episodio (che ho trovato solo in versione spagnola, purtroppo), che fino a quando oggi non ho avuto la briga di rivedere ricordavo come una visione onirica. Durante la primissima lezione Maia si allontana dalla classe, e girovagando per l’alveare, trova un buchino dal quale osservare il mondo di fuori: c’è una tempesta. Le cime degli alberi sono scosse da venti impetuosi e i fiori rischiano di perdere tutti i loro petali. Foglie volano in raffiche e non c’è traccia degli insetti del giardino. Maia osserva direttamente quello di cui in classe riferivano in maniera indiretta. E la prima impressione è che sia orribile, e davvero pericoloso, questo mondo che non offre nessuna sicurezza, al contrario dell’alveare, in cui ogni cosa occupa fisicamente e moralmente il suo posto e, anche se nel giro di qualche minuto torna il sole sembrerebbe proprio che la fine dell’episodio voglia far incassare un colpo allo spirito ribelle di Maia, che torna in classe e torna a fare domande a cui spesso le maestre non sanno o non vogliono rispondere. Eppure il dado è tratto: nel giro di due episodi Maia compie l’atto di disubbidienza supremo per un’ape, e, con un inganno, fugge dall’alveare, rinunciando alla sicurezza che offre per intraprendere un’esplorazione atopica del mondo che la circonda. Se l’alveare rappresenta il mito della società perfetta, la piena realizzazione dell’armonia collettiva, la Repubblica, Maia è il dettaglio in grado di far crollare tutto, è la testimonianza che dietro ogni ordine sociale si insinua il pericolo della chiusura al nuovo e al diverso. E infatti Maia, prima ancora di fuggire, domanda, mettendo in discussione la trasmissione del sapere codificata coerente con il mantenimento del sistema, solo, come detto, l’atto di apertura di una serie di irriducibili disobbedienze che culminano nella negazione ontologica dell’alveare stesso: l’illusione della comunità perfetta viene contraddetta dal desiderio di esplorazione individuale fuori dagli schemi (si veda anche il fatto che Maia spesso cammina, soprattutto quando ha a che fare con creature senza ali). Maia vede il mondo da un buchino, e ne ha paura. Ma poi vede anche il sole, e altri insetti, e la possibilità di essere qualcosa di più di ciò che è prescritto debba essere. non per rancore se ne va, ma per crescere, e ciò che è ancora più poetico è il fatto che questa sua fuga è senza mèta, ulteriore, finale scacco a quell’universo da cui proviene, in cui tutto funziona perché tutto è così come deve essere. rifiutandosi di riconoscersi in un modello produttivo che, per quanto cooperativamente orientato, esige dei tempi di produzione serrati per il mantenimento di livelli di vita standardizzati, Maia si getta nel mondo senza seguire un percorso prestabilito. Nel suo movimento a-direzionale non si preoccupa della sopravvivenza, ma della vita e di quanto può essere colorata: va dove la portano le sue domande.
E sapete che c’è alla fine di bello e sorprendente? Che negli ultimi episodi Maia all’alveare ritorna. Pazzesco, eh? Sembrava che questo fosse un lungo panegirico contro le società fintamente utopiche e concretamente oppressive, ma invece no, non è quello il punto. Il punto è che Maia scopre davvero chi è solo confrontandosi con un’alterità radicale e scardinando i tratti di un’identità imposta che non le appartiene. E quando torna all’alveare, lo fa perché è davvero sé stessa. viene accolta, come se non fosse mai andata via, come se tutti la stessero aspettando. Solo alla fine si capisce che quello non era il luogo di un rifiuto, ma il luogo di un ritorno. Casa come luogo che va continuamente rinnegato per poter essere tale. Oggi sono un po’ delirante, lo so. Sarà lo studio o la primavera che avanza. Non ricordo nemmeno se alla fine Maia resta nell’alveare o se ne va di nuovo. Forse il discorso è assurdo: sto ragionando sulla politicità di un cartone per bambini. Eppure, a me sembra proprio che Maia, pure così piccola, rappresenti una lezione più valida di tanti sofisticati sermoni: disobbedire a volte è l’unico modo per crescere. Ah, Maia è un irriverente monito anche per un’altra cosa, che spesso sfugge: non serve avere una mèta per volare.
Giulia Di Paolo
Un piccolo saggio, il tuo, sagace come l'ape Maia, brillante come il miele 🐝🍯