Una cosa di me che sa solo chi mi conosce da molto tempo è che da molto piccola, intorno agli undici, dodici anni, ero ossessionata da Audrey Hepburn. In questo film, che forse qualcuno ricorderà, Vacanze Romane, lei veste i panni di una principessa, Anna, che per un giorno intero fugge dai doveri di corte e gironzola per Roma, accompagnata da Joe Bradley, un giornalista. C’è una scena del film che oggi voglio scegliere come immagine da cui partire per raccontare quel che oggi ho da raccontare. Mentre passeggia nei pressi di fontana di Trevi, la principessa Anna si ferma davanti la vetrina di un parrucchiere, dove, in un tableau illustrato, sono riportati i tagli più in tendenza. Dopo aver ponderato per un attimo, entra; “messa in piega?” le chiede il giovane parrucchiere, prendendo tra le mani una ciocca dei suoi lunghi capelli castani. “No, just cut!”, risponde lei, “Ah, cut? Quanto, così?”, chiede il ragazzo, pizzicando solo qualche centimetro, ma lei “more” ribatte, e così le battute si ripetono ancora in sequenza, con lui sempre più scioccato e lei che invece appare del tutto determinata a uscire di lì, come poi avviene, con un taglio più che corto cortissimo, che poi per carità è Audrey Hepburn e starebbe bene anche con una busta annodata sotto il collo a mo’ di cuffia. Perché questo preambolo? Se pazientate ancora un attimo, ci arrivo.
Per chi si fosse perso qualcosa, o non avesse notato, ho passato un paio di settimane senza pubblicare niente. E non era tanto perché non avessi niente da scrivere, ché quello pure ci sarebbe stato, avevo qualche idea in attesa di prendere corpo. Il punto è che mi sono ritrovata proprio in quella che qualcuno chiamerebbe impasse. Una secca della creatività, o una palude, al contrario, insomma, ho vissuto per due settimane in una sorta di limbo in cui pur avendo da dire qualcosa, non sapevo come dirla, o non avevo voglia. Forse, come spesso capita per i terreni lasciati incolti, è semplicemente accaduto che ho trascurato la mia creatività, l’ho messa in secondo piano, mentre certe erbacce, metaforiche, si intende, hanno preso il sopravvento su di essa, pensieri che hanno invaso la mia mente fino a soffocarla. E non riuscivo mica a districarmi. Ho avuto la percezione che quelle erbacce fossero davvero di qualche specie infestante, impossibile da eradicare, per quanto mi sforzassi. Che fare?
Alla fine, qualcosa è giunto a darci un taglio. Intendo letteralmente, perché vedete, martedì sono andata a tagliarmi i capelli. Non ho deciso di istinto, come Audrey Hepburn nel film, l’avevo anzi accuratamente programmato, e aspettavo, in realtà, l’appuntamento con una certa ansia. Perché ci tenevo, mi rendeva contenta la prospettiva di cambiare finalmente aspetto. Per qualche sottile analogia, considero il tagliare i capelli un po’ come il togliere le erbacce: un procedimento che, arrivati a un certo punto, non puoi più rimandare. Quindi “Cut!”, ho detto come Audrey alla parrucchiera, mostrandole una foto che ritraeva il risultato che avrei voluto ottenere. Ma questo mio entusiasmo deve averla contagiata eccessivamente, e a forza di “cut” “cut” “cut” mi sono ritrovata con i capelli molto più corti di quelli della foto. A quel punto, l’entusiasmo ha lasciato il posto allo shock. So che potrebbe sembrare eccessivo, ma per le prime ventiquattro ore non riuscivo proprio a riconoscermi. Nello specchio ricambiava il mio sguardo una persona che mi suscitava straniamento: io e insieme qualcuno diverso da me. Come se sbirciassi in un universo parallelo. Anzi, meglio, come se stessi indossando una parrucca, per interpretare un ruolo in un film. E non era tanto che trovassi di stare male con quel taglio, quanto nell’effetto sorpresa, nell’imprevisto da cui era derivata una perdita di controllo, da parte mia, su qualcosa che sottovalutiamo di poter controllare: la nostra immagine, e, per esteso, la nostra vita.
Controllo, una parola che mi perseguita, che ciclicamente come presenza umbratile torna ad offuscarmi; la matrice delle erbacce che a volte mi infestano la mente. La matrice, pure, dell’ossessività con cui vorrei liberarmene, due estremità che giocano a rincorrersi e invece non fanno altro che rispecchiarsi. Fermarsi e dire “cut” è forse il miglior modo per uscirne. Ma dire cut davvero, cioè essere disposti a lasciare andare, a cedere le forbici nelle mani di qualcun altro, che sia una persona o che siano, semplicemente, le circostanze che spontaneamente si succedono, perché così è fatta la vita, e che non chiedono di essere dominate, ma semplicemente assecondate. Certo, le prime ventiquattro ore sono uno shock. Ma ogni tanto serve uno scossone. Serve togliere il superfluo. Tagliare, rimuovere le estremità che non funzionano più. Carpire le erbacce, lasciando che si intraveda il terreno sotto, lasciando che la terra possa tornare a essere smossa, coltivata. E possa tornare a dare frutti.
A un certo punto ho iniziato ad abituarmi a questo nuovo taglio, ho iniziato a prendere dimestichezza con l’immagine che lo specchio mi restituiva. Vedendomi diversa, mi ci sento. Un po’ come la principessa Anna (ma una principessa certo non sono) avevo bisogno di lasciare qualcosa indietro, anzi sul pavimento. Allora mi piace pensare che con questa ciocca se ne va via l’ansia della fine dell’università; con quest’altra dico addio a quel dolore, che più ci penso più si amplifica; con quest’altra ancora vedo cadere a terra la paura. Paura soprattutto di perdere il controllo. Voglio invece essere più leggera, come la mia testa, adesso che la scuoto, e sento il collo libero, che qualcuno mi ha detto essere molto ben evidenziato da questo nuovo taglio, e magari è pure vero, chissà. Dire auguri significa invocare una speranza di crescita. Auguri alla mia testa, dunque, sia dentro che fuori. E auguri anche alle vostre che leggete, di teste, che magari hanno ancora tutti i capelli che avevano martedì, ma mi auguro, appunto, che qualche volta, nel sonno o durante un pomeriggio di primavera, possano essere emendate di qualche erbaccia che non consente di vedere bene spiegate davanti a noi le potenzialità del nostro terreno. Adesso che succederà? È tutto finito, è sparita l’ansia, allora? Purtroppo, o per fortuna, tutto ciò che consideriamo negativo è tanto vitale quanto quel che invece positivo ci appare. Piuttosto, che la testa sia leggera, che il terreno sia libero; che, come una pianta potata, i germogli possano trovare il coraggio di esistere. E non preoccuparmi perciò tanto di come o quando fare le cose, di perdermi in intricate e cervellotiche sofisticherie, quelle sì deformazione che devo ai miei studi, ma fare, innamorarsi del tentativo scevro di sovrastrutture. Che sia guidare una vespa per Roma, scrivere, o quello che vi pare.
Giulia Di Paolo
La mia principessa