Giurato numero 2, la recensione.
Desiderare il colpevole ideale e preferirlo a quello vero.
“Juror #2” è l’ultimo film diretto e prodotto da Clint Eastwood con la scrittura di Jonathan Abrams, che vede come interpreti principali Nicholas Hoult, Toni Collette, J. K. Simmons e Chris Messina.
Justin Kemp (Nicholas Hoult) è un giovane giornalista americano, entusiasta insieme alla moglie Ally (Zoey Deutch) di aspettare un bambino e di mettere su quella che da subito sembra una famiglia tanto desiderata. L’attesa della nascita è però turbata dall’arrivo di una lettera di convocazione per Justin, il quale deve presenziare nella giuria per un processo. Mentre vengono spiegate ai giurati le dinamiche dell’omicidio per cui sono chiamati a giudicare, Justin si rende conto che potrebbe essere stato coinvolto nel tragico episodio e che il vero colpevole potrebbe essere lui. Le vicende del processo sono scandite anche dalla corsa al ruolo di procuratore distrettuale dell’avvocato Faith Killebrew (Toni Colette), che dovrà scegliere se incassare la gloria di un caso risolto come da manuale o se perseguire una verità che non è quella che appare.
Partiamo dal presupposto che i processi in America non funzionano come in Italia, sono intrinsecamente più teatrali. Il processo penale americano è caratterizzato dalla presenza di una giuria laica, alla quale sono rivolte le arringhe degli avvocati e che decide sulla colpevolezza dell’imputato. I giurati sono persone comuni, scelte attraverso un processo chiamato “voir dire”, con il quale viene esaminato il background dei candidati giurati prima di essere scelti per comporre la giuria. È così che Justin finisce per puro caso a giudicare James Sythe, un uomo accusato di aver ucciso la fidanzata in seguito a un litigio in un bar. Ma, forse, al posto di James, sul banco degli imputati, dovrebbe esserci proprio Justin che, per una serie di coincidenze, tornando a casa dallo stesso bar, quella sera aveva investito un “cervo”.
È un film che parla di coscienza. La vediamo in molte forme per tutto il film, ma principalmente è a quella di Justin e dell’avvocato Faith che mi riferisco. Sono entrambi portati a fare una scelta combattuta, lei potrebbe sacrificare la verità per far condannare il colpevole ideale e guadagnare voti, mentre lui potrebbe lasciar condannare un uomo innocente per non abbandonare la sua famiglia. Ci fermiamo e aspettiamo di vedere da quale parte penderà la bilancia, ma forse ci perdiamo a guardare il dito ignorando la luna. La vera protagonista del film è la giuria, una sintesi imperfetta di visioni discordanti che fatica a trovare un verdetto unanime - composta sia da chi non riesce a vedere oltre il caso mediatico sia da chi vuole approfondire la faccenda - e che viene inevitabilmente manipolata da Justin.
Clint Eastwood porta a casa un film dall’aria più scorrevole e semplice, molto lontano dal tono drammatico di “The Mule” (2018) e decisamente meno autoreferenziale di “Cry Macho” (2021). Non sarà bello e d’effetto come gli altri film di Clint, ma sicuramente non fa una brutta figura. Bisognerà capire cosa ha scatenato le polemiche riguardanti la distribuzione povera che il film ha avuto in America (solo 35 sale), ma probabilmente lo troveremo comunque alla prossima edizione degli Oscar.
Maria Vitale