La brezza e la primavera coi suoi odori mi vogliono persuadere che in fondo va tutto bene. Ma la mia natura protesta, non accettando l'evidenza che la vita in fondo è questa. Sedere sotto un albero, dopo aver mangiato la pizza rossa. Che altro potrei volere, no? Permane tuttavia un alone di angosciante condanna intorno a ogni mio pensiero, come contraltare diabolico di quel dolce, primaverile sentire. Non so nemmeno come sto, alla fine. Dovrei smettere con questa mania della misurazione e del calcolo. Accettare l'incertezza e aprire gli occhi, così da chiudere, almeno per un po’, quel luogo remoto ma al tempo stesso vicino da cui sgorgano come petrolio i pensieri cattivi. I pensieri di morte che oppongono resistenza a tutta questa opulenta e invece irresistibile vita. Quanto vorrei uscire da me, avere il privilegio di non essere io: allora forse sarei davvero libera. Desidero dar forma a una narrazione che possa non appartenermi, ma trovo necessario esprimermi diaristicamente. L'aria è molto profumata. Dentro non si sente questo profumo. Mi piacciono anche gli insetti che mi cadono addosso, mi piace questo alberello a cui sto appoggiata con la schiena. Non voglio rientrare, voglio stendermi su questo prato e svegliarmi a notte fonda. Rimanere intrappolata in questo giardino e smarrirmi nei suoi ignoti meandri; chissà che non scopra qualche anfratto misterioso, qualche pertugio in cui trovare una tana. Tutti mi cercherebbero, ma io sarei semplicemente qua, nascosta in bella vista, assorta dalla mia fuga dai doveri della vita. Adulta? Non mi ci sento. Oggi più che mai compatisco Peter Pan. I pensieri cattivi mi hanno innescato in testa un conto alla rovescia, come se ogni frazione di vita fosse l'attesa di un’esplosione. Nel giardino invece è tutto fluido, e questo mi piace, sento che è il vero antidoto: la lentezza. Il futuro è un'illusione o lo è il non averlo? Nel giardino esiste solo il presente. Ci volevo scrivere una piccola sceneggiatura, sul giardino. Volevo che parlasse di due amanti che si rifugiano in un'utopia simile a quella appena descritta, e si dimenticano del tempo che passa, di mangiare, di bere. Per loro esiste solo la felicità assoluta corroborata da quel luogo ameno, quell'eden eterno. Alla fine, non l'ho ancora scritta: l'idea forse è bella ma non la sento ancora. Non sarebbe stata sincera, sarebbe stata una finzione. Le finzioni non funzionano, si scrive solo per dire la verità. Poco importa prima o terza persona, forse. Dico forse. Perché a quell'uscire da me non ci rinuncio: come un angelo perduto attendo anche io di poter rientrare nel paradiso terrestre, e che finisca il periodo del dolore. Attendo una redenzione. Essere sollevata dall'incombenza di questa identità di cui sempre si devono ricomporre i pezzi. A lezione qualche giorno fa ci hanno parlato della dottrina del tikkun, o dei vasi: si diceva che Dio un giorno provò a mettere tutto Sé stesso dentro dei vasi, ma questi esplosero, impossibilitati a contenere, finito ricettacolo, tutta quell'infinità. E i pezzi dei vasi sono ancora in giro per il mondo, sparsi, in attesa di venir ricomposti. Questo sì mi farebbe credere che siamo fatti a Sua immagine e somiglianza. Ma un Dio a pezzi non è un dio serio. Un dio che ci lascia la missione di ricomporlo assomiglia più a un bambino che ha imbrattato tutto di marmellata. Io mi basto e avanzo per ricomporre i pezzi. Però capisco il senso della storia; non a caso si parlava di messianismo, che è poi l'attesa delle attese. Io sono in perenne attesa, ma preferirei appunto fuggire. Ora anche il cielo si sta rabbuiando: un subdolo vento annuncia che a breve pioverà. Devo rientrare.
Alla fine sono rientrata. È passato più di un giorno da quando ho scritto l'ultima frase. Strano da parte mia, che sono solita scrivere i pezzi tutto d'un fiato. Volevo tornarci su, perché non ricordavo quali fossero le ultime parole. Oggi è il movimento dolcemente ondulatorio del treno a ricordarmi l'impermanenza di ogni posizione e ogni stato dell'essere. Forse devo essere meno attaccata alle cose, alle parole, alle opinioni, ai pensieri. Forse fuggire in luoghi remoti non mi farà ottenere la pace che cerco. Forse attendere la perfezione è un diabolico vizio. Forse tutto questo non ha davvero importanza. Ma ho paura, in fondo, di sentirmi a disagio nel disagio. Ecco da cosa vorrei fuggire, dal disagio. Me lo diceva anche un'amica ieri. Ha ragione, ma tanto dirlo a che serve? Alla fine di tutto il suo discorso motivazionale ho recepito solo la parte in cui mi diceva che una vecchia compagna di liceo ha storto il naso quando ha sentito il mio nome; una cazzata a cui ho ripensato più volte nel corso della serata, non perché nutra l'infantile pretesa di essere amata da tutti, ma perché ho trovato teneramente triste che il giudizio sulle persone a volte si trovi ad avere come fondamento fatti e caratteristiche che non esistono più. È stato dolceamaro il sapore che ho sentito in bocca pensando che mentre mi arrovello sul futuro, io, per alcuni, sono ancora quella che ero a 17 anni. Quella che loro percepivano fossi. Quanti pezzi di me ci sono in giro, non sono in grado di vederli tutti. Che c'è da ricomporre, allora? Niente. Che cosa sto aspettando? Niente. Mi sto prendendo in giro. Questo perdermi in circonvoluzioni è un altro espediente escapistico. Ci sono pezzi che non posso far andare d'accordo e tempi che non promettono nulla. Mi sto muovendo e non lo accetto. Sto cambiando e non so cosa aspettare; dove stia andando, nemmeno. Però penso sia vero che la natura, con la sua lentezza disarmata, sia l'antidoto a questa febbre dei pensieri: stare semplicemente nel presente. Magari sparirà, guardando un albero, questa fastidiosa prima persona. Sono stufa di riflettere, di rimuginare, di concepire pensamenti. Sono stufa pure di scrivere, anche se ne ho bisogno. Vorrei poter scrivere il silenzio senza inquinarlo con le parole. Fare le cose senza la paura di sbagliare. Muoversi per muoversi, andare per andare, come il treno procede di stazione in stazione. Non so cosa farò l'anno prossimo; l'università si avvicina al termine, e questo mi spaventa. L’eden, però, è chiuso ormai da molto tempo. E i vasi sono esplosi. Eppure, se ci penso bene mi pare che nei pezzi vi sia più potenziale che nell’intero, ma non per il gusto di consumarsi nell’attesa di essere salvati. Nemmeno per fuggire, che alla fine è solo un altro modo di piangersi addosso. Devo ricordarmi di giocare di più. Più penso ai pezzi più mi viene in mente l’immagine di un puzzle senza immagine, cioè con tutte le immagini possibili. La primavera e i suoi profumi, io sul treno, io a 17 anni. Io che sono qua e finisco questo pezzo, il treno. Forse quel dio ingenuo voleva solo fare un puzzle, e si è fatto esplodere apposta. E noi pure stupidi che stavamo aspettando. Devo ricordarmi come si gioca. È molto importante.
Giulia Di Paolo