La filosofia “Cruise”
Una riflessione sulla saga di Mission Impossible e sulla devozione per lo spettacolo
Anche questa settimana rimaniamo sul format delle riflessioni, ma stavolta con una scusa diversa. Lo scorso weekend, per staccare dopo una settimana di esami, sono andata a vedere Mission Impossible: The Final Reckoning, l’ultimo (ultimo?) capitolo della saga. Fare una recensione partendo dalla fine mi risultava difficile, quindi devo ammetterlo: ho preferito scrivere altro. Il che non è stato difficile, ho sempre avuto un debole per questo franchise. L’ho visto evolversi e affrontare la concorrenza degli innumerevoli blockbuster usciti in questi anni, e così mi sono chiesta: come fa a resistere un prodotto del genere nell’ecosistema cinematografico di oggi? Perché è un’anomalia analogica in un’era digitale. Nel panorama odierno del cinema, dominato da intelligenze artificiali, sceneggiature generate da algoritmi e interi set ricreati in digitale ha continuato a ribellarsi. Mission: Impossible non è solo azione, inseguimenti e adrenalina: è una dichiarazione d’intenti. Il cinema può (e deve) ancora essere umano, fisico e reale.
Tom Cruise, con il suo approccio radicale e quasi ossessivo alla verosimiglianza, ha trasformato la saga in qualcosa di più di un franchise: è diventato un manifesto per un certo tipo di cinema che rifiuta la scorciatoia tecnologica e rivendica il corpo, il sudore e il rischio come strumenti narrativi. Ogni film della serie è costruito su azioni che l’attore compie davvero. L’uso della CGI è ridotto al minimo, e la produzione non fa uso di intelligenze artificiali, né nella scrittura né nella regia. Questo è cinema fatto a mano. Questa scelta non è casuale, né solo un vezzo da divo. È il cuore di quella che molti chiamano oggi la “filosofia Cruise”, un modo di intendere il cinema d’azione in cui l’autenticità non è solo un valore estetico, ma una promessa al pubblico. Per Cruise, il corpo dell’attore è parte integrante dello spettacolo: non basta essere il protagonista della scena, bisogna anche vivere fisicamente l’azione. Per questo, negli anni, si è addestrato come paracadutista, pilota d’elicottero, esperto di immersioni, guida acrobatica. E tutto questo per girare sequenze che non sembrino finte. Basta rivedere alcune delle scene più iconiche della saga per capirlo. La scalata al Burj Khalifa, il grattacielo più alto del mondo, in Ghost Protocol. L’aereo in decollo a cui Cruise si aggrappa davvero in Rogue Nation. L’inseguimento in elicottero da lui stesso pilotato in Fallout, o il salto HALO a 7.600 metri, girato in piano sequenza. Non sono effetti speciali: sono risultati di mesi di addestramento e un numero imprecisato di prove. Persino quando si rompe una caviglia correndo sui tetti di Londra, Cruise continua a girare, e quella ripresa (reale, dolorosa) finisce nel montaggio finale.
Eppure, è proprio in Dead Reckoning e The Final Reckoning che questa scelta assume un valore ancora più potente. Il film racconta infatti di un’entità digitale, una super-intelligenza artificiale chiamata l’Entità, che sfugge al controllo umano e minaccia di destabilizzare governi, eserciti, informazioni. Un nemico invisibile, imprevedibile, che nessuno può battere con la forza fisica. Il paradosso è affascinante: Cruise e McQuarrie, co-autore e regista del film, ci mettono davanti a un’IA potentissima mentre girano un film completamente privo dell’apporto di IA. È come se la forma smentisse il contenuto, per poi rafforzarlo: in un mondo in cui tutto diventa automatizzabile, Mission: Impossible resta ostinatamente analogico. Quando Ethan Hunt si oppone a questa entità digitale, non è solo un personaggio che combatte un algoritmo, è un attore in carne e ossa che sfida l’industria.
Negli ultimi anni, molte saghe cinematografiche hanno perso quella fisicità e autenticità che un tempo le rendevano coinvolgenti, cedendo progressivamente all’abuso di CGI e ambientazioni digitali. Fast & Furious, ad esempio, è passata da corse clandestine realistiche a inseguimenti spaziali apertamente surreali, dove nulla sembra più avere peso o rischio reale. Il Marvel Cinematic Universe ha seguito una traiettoria simile: se nei primi film si intravedeva ancora un equilibrio tra effetti e realtà, oggi la maggior parte delle scene d’azione si svolge in ambienti digitali, rendendo le emozioni quasi astratte. La trilogia de Lo Hobbit, a confronto con Il Signore degli Anelli, mostra chiaramente come la dipendenza da creature e paesaggi generati al computer possa svuotare un mondo narrativo della sua materia viva. Non è casuale che altri film stiano evitando di percorrere questa strada: il ritorno agli stunt pratici è evidente anche in saghe come John Wick, The Batman e persino nel recente Top Gun: Maverick, dove (non a caso) Tom Cruise è nuovamente protagonista.
Alla fine, forse Mission: Impossible non è solo una saga d’azione, ma una specie di terapia alternativa per Tom Cruise: mentre noi ci limitiamo a fare yoga o a bere tisane detox per sentirci vivi, lui si aggrappa a un treno in corsa, scala canyon, si lancia da un elicottero e sfida la morte almeno due volte per film. Il tutto con il sorriso di chi probabilmente dorme dentro una capsula iperbarica e si nutre di adrenalina e dogmi di Scientology. Eppure, in un’epoca dove le emozioni sono filtrate da schermi e le storie scritte da IA, viene quasi da pensare che abbia ragione lui.
Maria Vitale