Dopo un mese interminabile trascorso lontana dalle sale cinematografiche, tra impegni, ritmi frenetici e qualche inevitabile rinuncia, finalmente sono riuscita a tornare al cinema con gli amici. Tornare in una sala buia, con lo schermo grande davanti, è già una piccola vittoria in sé, ma quando sai che il menù del cinema è bello ricco allora sì che si festeggia. In questo caso la portata principale è stata “La Trama fenicia”, ultimo film di Wes Anderson, quel genere di piatto che sai che ti piacerà, un po’ una scelta sicura. Ma quando in un ristorante si ordina sempre la stessa pietanza , con gli stessi ingredienti e gli stessi gusti, si rischia di annoiare il palato, e secondo me questo è un po’ quello che sta succedendo con i film di Wes Anderson.
In questo caso il protagonista, Zsa-Zsa Korda (Benicio Del Toro), è un oligarca affascinante e in decadenza, coinvolto nello spostamento del settore di famiglia dall’industria bellica a quella energetica. Un labirintico insieme di progetti pensato per sfruttare le risorse di una regione deserta. Il problema? Il progetto è bloccato per un disavanzo finanziario, una sorta di “gap” che nessuno riesce o vuole colmare fino in fondo. Il cuore della trama è una contraddizione contabile e morale. Korda tenta disperatamente di coprire il “gap” finanziario con giochi di potere, vendite fittizie e proposte estreme, mentre nel frattempo emergono segreti legati alla morte della moglie. Figura chiave è la figlia Liesl (Mia Threapleton), una suora novizia che vive in un convento e che, a sorpresa, si ritrova “in prova” per diventare erede della fortuna del padre.
Wes Anderson continua la sua esplorazione di un cinema che ha ormai superato il confine tra narrazione e composizione pittorica. Un’opera che può essere vista come l’apice del suo stile o come una deriva autoreferenziale di un autore che ha fatto della geometria e della nostalgia i suoi marchi di fabbrica. In ogni caso, si tratta di un film che non lascia indifferenti: o lo si ama per la sua perfezione estetica e la sua complessità, o lo si respinge per la sua freddezza e distanza emotiva. Spesso, entrambe le reazioni si mescolano nello stesso spettatore. Anderson costruisce il mondo del film con la sua solita precisione: ogni inquadratura è una miniatura, ogni colore ha una logica interna, ogni oggetto sembra appartenere a un museo delle curiosità immaginarie. I luoghi non esistono davvero, ma sono evocazioni di luoghi esistiti nei sogni, deserti geometricamente perfetti. La messa in scena è così curata da diventare protagonista, oscurando (forse volutamente) la storia.
È una formula che ormai comincia a mostrare i segni della stanchezza. Nonostante l’ambientazione nuova e la premessa originale, il film finisce per suonare come una variazione sul tema, più che un reale passo avanti. La sensazione, scena dopo scena, è quella di muoversi all’interno di un labirinto che abbiamo già visitato troppe volte: la voce narrante esterna, l’ironia trattenuta, i dialoghi meccanici, i siparietti teatrali. Tutto è curato, calcolato, calibrato al millimetro, ma spesso a scapito della tensione narrativa e del coinvolgimento emotivo. Il problema non è tanto nello stile, che rimane inconfondibile e visivamente affascinante , quanto nel fatto che sembra ormai diventato il solo motore del film. I temi sono complessi e interessanti, ma vengono trattati con un distacco intellettuale che finisce per sterilizzarli. Anche l’introduzione di nuovi elementi (la religione, la burocrazia, il linguaggio tecnico-finanziario) sembra piegata più al gusto della costruzione estetica che a un reale bisogno di dire qualcosa di nuovo. La Trama Fenicia conferma il talento di Anderson come architetto dell’immagine, ma mostra anche i limiti di un linguaggio che rischia di diventare autoreferenziale, compiaciuto, incapace di rinnovarsi davvero. È un film che si guarda con curiosità, ma che raramente sorprende.
È un film saggistico, quasi brechtiano, in cui Anderson smonta e rimonta i suoi stessi strumenti: le simmetrie, la voce narrante, i cartelli esplicativi, l’umorismo assurdo. Il risultato è un’opera che può sembrare fredda. Il cast funziona come un’orchestra, dove alcuni strumenti sono volutamente lasciati in sordina. Non è un film corale nel senso classico del termine: ogni personaggio appare come una funzione narrativa, più che come un individuo. Ed è proprio qui che il film divide: chi apprezza questo tipo di costruzione troverà coerenza e rigore; chi cerca emozioni, empatia e trasformazioni, resterà a mani vuote.“La Trama Fenicia” è quindi un’opera che divide: affascina chi ama il cinema d’autore e la satira intelligente, ma può lasciare insoddisfatti chi cerca una narrazione più coinvolgente o emotivamente calorosa. In definitiva, un ritorno al cinema che, pur con qualche riserva, vale la pena affrontare per chi non teme di confrontarsi con un racconto tanto elegante quanto spietato.
Maria Vitale
Brava